Era l’ormai lontano 31 agosto 1997 quando su Fast Company apparve un articolo dal titolo “The Brand Called You”. Il guru imprenditoriale Tom Peters, che firmò l’articolo, aprì una nuova era.
“Oggi, per essere in affari, il nostro più importante lavoro è quello di responsabili marketing del brand chiamato Tu” scrisse Tom Peters.
Da quel agosto del ’97 sono passati quasi 27 anni ma il personal branding non è mai morto, anzi, è in auge più che mai perchè in un mondo sempre più ricco di brand e persone, diventa indispensabile avere anche una vita digitale.
“Promuovere il lavoro è diventato importante quanto saper fare il proprio lavoro, e avere seguito è il paradossale prerequisito per crearsi un seguito” ha commentato Andrea Daniele Signorelli su Il Tascabile.
Un’autopromozione che avviene non solo per aggiunta (cosa mostrare), ma anche per sottrazione (cosa non mostrare), per apparire meglio di fronte ad una società consumistica che vuole comprare “un modo di essere”, vuole una storia, un volto, un marchio, ma anche, soprattutto oggi, un prodotto autentico\vero.
In questo mondo liberista siamo così costretti a passare il nostro tempo a trasformarci in prodotti, siamo costretti a passare molto tempo per costruire il Tu. “Sembra che il personal branding si riduca ad un’innocente e genuina cura della propria immagine social, ma, in termini di impatto, impegno richiesto e conseguenze sulla salute mentale, le cose non sono affatto così semplici” ricorda Signorelli.
L’ansia, la depressione, il burnout, sono gli effetti indisiderati dell’ossessione di essere brand di noi stessi. E’ dunque arrivato il momento di pigliare una pastiglia, equilibrare ogni sforzo, per vivere serenamente sia la vita reale che quella digitale.
Buon personal branding.
Personal Brand. La storia e le problematiche da risolvere
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